lunedì 8 settembre 2014

Vidi o'Marin quant'è bello!


Volendo essere odiosamente banali potremmo parlare di favola, per chiudere in una cornice color pastello le istantanee che ritraggono l'incredibile cavalcata di Marin Cilic agli Us Open 2014. I presupposti per scrivere una novella a lieto fine ci sarebbero tutti, in realtà: nel maggio del 2013 Marin viene pescato ad un controllo antidoping effettuato durante l'open di Monaco di Baviera, e pochi giorni dopo i media croati iniziano a far rimbalzare la notizia: positivo. Cilic salta il torneo di Wimbledon per un non meglio precisato problema ad un ginocchio, che i maligni prima, ma poi si accoderanno in molti, sono convinti mascheri un silent ban, una squalifica de facto che l'ATP avrebbe comminato al croato prima della sanzione ufficiale, che di lì a poco si trasformerà in un'inibizione di tre mesi. Pochi, perché l'atleta collabora, ed  il glucosio proibito contenuto nelle zollette di zucchero comprate da mammà sembra sia stato assunto per imperizia: il buon Marin, in sostanza, non ha letto le avvertenze sulla confezione. Niente dolo, dunque, ed eccolo di nuovo in campo a Bercy, nell'ultimissima parte della stagione indoor europea. Alla sua buona fede credono tutti, perché Cilic, un bravissimo ragazzo, tanto bravo da sfiorare i limiti della sommissione, semplicemente non sembra provvisto della minima dose di malizia, e chi scrive si accoda alla comune percezione, che poi è anche quella di Federer, il quale, interrogato sull'argomento dopo essere stato massacrato dal tennista di Medjugorje in semifinale, ha risposto con un esaustivo "credo non abbia fatto niente di sbagliato, intendo di proposito. Se è stato stupido? Forse". Quello che pensano più o meno tutti, in definitiva. Fatto sta che la sospensione lo ha fatto pensare, lo ha reso ancor più concentrato e chiuso in se stesso. Incapace di provare sentimenti di rivalsa nei confronti di chicchessia, Cilic ha provato a dare una svolta alla sua carriera da perdente di talento: ha deciso di rischiare, scombussolando il team con l'acquisto di Goran Ivanisevic, che in tre mesi di coaching è riuscito nell'impresa impossibile; separare il Cilic ragazzo, mite e disponibile, dal Cilic giocatore. Meno di un anno dopo, Cilic lo ringrazia commosso con in mano una coppa ed un assegno da tre milioni di dollari, da neo vincitore degli Us Open.

"Vedi Goran? Anche Goran era un bravo ragazzo, ma solo fuori dal campo. Il Goran che scendeva in campo era un pazzo". Questo più o meno il ragionamento di Ivanisevic, che ha inoltre infierito su un difetto del suo assistito per lui inaccettabile: un croato alto quasi due metri non può lucrare così poco dalla prima di servizio: guardasse Karlovic, Ljubicic e Ancic, oltre ovviamente al maestro, a quante castagne dal fuoco si toglievano armando l'archibugio. Cilic ha ascoltato a testa bassa e si è messo a lavorare sodo, pensando che si, almeno valeva la pena provarci. E i risultati sono arrivati subito. Iniziata la nuova stagione con un terrificante 18-4 nel rapporto vittorie-sconfitte con due tornei conquistati, Marin ha giocato così e così sul rosso, molto bene a Wimbledon dove ha portato al quinto Djokovic in quarti di finale, ed in modo interlocutorio nei mille nordamericani sul cemento, prima della deflagrazione newyorchese. A Flushing Meadows, dopo aver facilmente superato Baghdatis, Marchenko e Anderson, Marin ha avuto bisogno di aver paura contro Simon, battuto al quarto turno al termine di una durissima battaglia in cinque set, per esplodere e annientare Berdych, Federer e infine Nishikori, nel sorprendente ultimo atto conclusosi appena qualche ora fa.

Il giapponese di Bradenton ha sorpreso da par suo anzichenò. E pensare che gli assortiti problemi fisici cui è di malgenio abbonato gli stavano suggerendo di rinunciare alla kermesse americana, ma partita dopo partita Kei ha messo insieme coraggio e fiducia, superando in fila Raonic, Wawrinka e addirittura Novak Djokovic, con una menzione speciale per il quarto vinto sullo svizzero al termine della partita più bella del torneo e forse dell'anno. Probabilmente la benzina è finita appena prima di approcciare l'ultimo ballo, perché Nishikori in finale è andato poco oltre l'infruttuosa palla break conquistata all'alba della partita, prima di naufragare in un mare di errori nella tempesta di vincenti che il suo avversario ha sparato da ogni posizione.

Il 6-3 periodico finale è una lezione molto dura per Kei, il quale però saprà far tesoro dell'esperienza, e pregando che i malanni gli stiano alla larga, tornerà a competere per qualcosa di grosso. Marin, dal canto suo, mette il punto esclamativo ad una stagione davvero inaspettata, che ha regalato quattro vincitori slam diversi ed imposto una pausa alla dittatura dei cosiddetti fab four. Cilic e Wawrinka oggi; Dimitrov, Raonic e Nishikori domani. Calcolando che il futuro a lungo termine si prevede ben frequentato e che le leggende del recentissimo passato non hanno nessuna intenzione di passare la mano, abbiamo ragionevoli speranze di poterci divertire ancora per qualche discreto annetto.


US Open 2014 (finale maschile):

Marin Cilic (CRO) b. Kei Nishikori (JPN)  6-3 6-3 6-3

domenica 7 settembre 2014

Serena domina, e sono diciotto. Ma occhio a "Caro".


La senti chiamare "Venere nera" da un telegiornale generalista di una tivù generalista nel senso più deteriore del termine. E tu sei ancora imbambolato, completamente abbacinato dalla sua debordante prestazione sportiva che quasi ci passi sopra, quasi nemmeno te ne accorgi. Ma poi pensi che no, che "Venere nera" proprio non si può sentire. In primis perché la sorella maggiore di nome fa proprio Venere, e dunque se l'agghiacciante locuzione dev'essere per forza associata ad una campionessa di colore, che sia abbinata a colei che ne è legittima proprietaria. E poi perché, con tutto il rispetto, il nome di una dea non si addice ad una donna secolare come poche, con i piedi ben piantati per terra e l'aspetto osé ed al contempo brutalmente intimidatorio di tenutaria gentile e severa. Serena non è mai stata e non sarà mai una Maria Sharapova, algida ed inattingibile, lei sì dea per l'immaginario comune e che per questo ed altri mille motivi rappresenta la perfetta antitesi della sei volte campionessa dell'Open degli Stati Uniti d'America. Maria, quantunque feroce sul campo, sconfigge le avversarie con lo sguardo ancor prima che con la forza perché non vuole sporcarsi le mani, lei così superiore alle misere questioni della vita terrena, mentre Serena si avventa sull'avversaria, la dilania e la sbrana, prima di assolverla a rete con lo sguardo che sempre sembra esprimere postume e sincere scuse. Serena è Serena.

Maria doveva e poteva essere la belva più pericolosa nella caccia della più giovane delle sorelle Williams al diciottesimo alloro major, ma il suo fuoco di sfida è stato spento già in ottavi di finale da una fidatissima alleata di quest'ultima, ossia Caroline Wozniacki. La danese, che nonostante sia beneficata da insindacabile avvenenza e da decine di miliardari contratti pubblicitari risulta essere ragazza tra le più ben volute nel circuito per la sua straordinaria umanità, siede da tempi non sospetti nel ristretto salotto di amici della pluricampionessa. Entrò nelle sue grazie diciassettenne, quando Venus la prese sotto la propria ala protettiva dopo un paio di doppi d'esibizione organizzati per ragioni di sponsor. Ai tempi dell'embolia, "Caro" fu tra le poche a spingersi oltre gli auguri di facciata recandosi più volte in clinica per sincerarsi delle sue condizioni di salute, e da allora il rapporto si è cementato aldilà dei limiti imposti dalla rivalità sportiva. E' di poche settimane fa la fotografia che ritrae le due in vacanza a South Beach, intente a smaltire le delusioni post Wimbledon di entrambe e, nel caso di Wozniacki, le più disperate angosce post abbandono a mezzo stampa fattole recapitare dall'ufficio di Rory McILroy al momento di consegnare agli invitati le partecipazioni nuziali. Un evento che pareva poter rappresentare un macigno tombale sulle speranze di vertice di un'atleta già provata da un paio d'anni di cupa involuzione sportiva, una spirale discendente che già l'aveva spinta ai margini delle prime dieci e che nulla di buono lasciava presagire per il futuro. Ma gli effetti di un avvenimento tanto doloroso sulla psiche di un campione sono imprevedibili, e dal fondo dell'abisso Caroline è riemersa di forza, tornando ad essere propositiva come ai tempi belli delle sessantasette settimane passate in vetta alla classifica, e riassaporando il gusto di una finale slam proprio a Flushing Meadows, cinque anni dopo aver ceduto a Kim Clijsters la più colossale occasione della carriera.

"Se vincerà lei, sarò la persona più felice del mondo nel vederla conquistare il suo primo slam. Se vincerò io, sarò felice di aver fatto la storia". Così parlò Serena nella conferenza stampa successiva alla vittoria, anche se sarebbe più corretto definirla mattanza, ai danni di Ekaterina Makarova in semifinale, e dall'espressione del volto si capiva perfettamente che la sincerità dell'affermazione non era in dubbio. Tuttavia, una partita non c'è stata. La vincitrice ha iniziato da subito a sentire la palla come nelle giornate perfette, e quando la fiducia irrora il suo sterminato serbatoio di potenza e talento non c'è al mondo una tennista capace di resisterle. Caroline ha corso e corso e dato tutto, come sempre, ma le sue strepitose volate difensive non sono servite a nulla, se non a mettere ulteriori chilometri nella gambe in vista della maratona newyorchese che si è proposta di correre a scopi al solito benefici. L'equilibrio, se di equilibrio si può parlare, c'è così stato solo per i primi cinque giochi, nei quali Serena non è riuscita a far fruttare due consecutivi break cedendo a sua volta il servizio all'avversaria, forse per colpa di un umanissimo picco di tensione in avvio che ha tormentato il suo altrimenti devastante servizio. Poi, fuggita sul cinque a due, la Williams non si è più guardata indietro, chiudendo senza affanno alcuno con un duplice sei a tre, e così riuscendo nella disumana impresa di chiudere il torneo senza concedere più di tre games a set, prima tennista a farcela dai tempi in cui da queste parti dominò Martina Navratilova nel 1983.

Una Serena debordante, mi si perdoni la banalità, che riesce a chiudere un'altra annata da campionessa slam e non era scontato, viste le problematiche prove offerte a Melbourne, Parigi e Londra. Una Serena che troppo presto, e per l'ennesima volta, era stata data in fase calante, ma nessuno tra noi saprà capire quando la fase calante sarà irreversibile. Una Serena che sembra si diverta a prendere per i fondelli chi prova gusto ad organizzarle sistematici funerali, tornando sempre a vincere più dominante che mai. E sinceramente non vedo chi, se non se stessa, possa metterla seriamente in difficoltà l'anno venturo. Nella foto che suggella la premiazione, troviamo accanto a lei una Wozniacki pienamente restituita alla cerchia delle viceregine, e sono sicuro che, così procedendo, la ritroveremo tra le primissime molto presto. Salvo ulteriori fidanzamenti.


Us Open 2014 (finale femminile):

Serena Williams (USA) b. Caroline Wozniacki (DEN)  6-3 6-3