martedì 29 aprile 2014

Settimana di transizione, tra prime volte e conferme.


Settimana di transizione, quella appena passata. Una settimana segnata dalle prime volte, quasi una costante di un'annata che promette di iniziare, quantomeno, a picconare le certezze acquisite in anni di dominio incontrastato dalle autorità costituite. Se il livello tecnico di Marrakech, invero piuttosto basso, ha sminuito in qualche modo il successo di Maria Teresa Torro Flor nel ballo delle aspiranti debuttanti con Romina Oprandi, e la Porsche che ogni aprile Maria Sharapova aggiunge alla personale scuderia vincendo il torneo di Stoccarda è ormai consuetudine, più scalpore ha destato il primo successo di Kei Nishikori sulla terra battuta, arrivato al termine di un Conde de Godo letteralmente dominato e concluso in panciolle dopo la facile finale vinta sul sorpresone ecuadoriano Santiago Giraldo. Il giapponese di Bradenton è il primo giocatore a vincere Barcellona pur non essendo spagnolo dai tempi di Gaston Gaudio, che trionfò nell'edizione del 2002, e promette, con la sua feroce regolarità, di essere una scomoda mina vagante nella volata d'argilla che si concluderà al Roland Garros.

Settimana di "prime", s'è detto, ma quella appena conclusasi è stata segnata anche da conferme importanti ed importantissime. A Bucarest il torneo è stato quello che è stato, ma Dimitrov ha bisogno di vincere per imparare a vincere. Dunque anche il modesto secondo titolo ottenuto nel circuito maggiore è fieno in cascina per il signor Sharapov, che se non altro ha imparato a scacciare la tremarella contro avversari che dovrebbe facilmente sbranare. Quello della finale di domenica, Rosol, uno che quando sente profumo di Romania alza di due tacche il volume dello stereo, è stato digerito con relativo agio, ma continuo ad avere l'impressione che il rovescio del bulgaro, un rovescio che arrossisce d'imbarazzo quando viene sollecitato con media decisione, sia un ostacolo ancora abbastanza alto nella strada che dovrebbe portarlo sulle vette del monte Tennis.

Per trovare una conferma davvero entusiasmante dobbiamo scendere di livello e cambiar continente, perché lo spettacolo vero è andato in scena sulla terra verde di Savannah, sulla costa della Georgia americana. Nel profondo sud Nick Kyrgios, australiano di Canberra allevato da padre inequivocabilmente greco e da madre malese, ha conquistato il terzo challenger in carriera, secondo consecutivo dopo quello di Sarasota vinto la settimana precedente,  travolgendo chiunque abbia incontrato sulla propria strada e lottando soltanto in finale, dove ha ceduto a Jack Sock l'unico set del torneo finendo per prevalere comunque in tre. Diciannove anni ancora da compiere, il cervellone che settimanalmente redige le classifiche ATP lo colloca in questi giorni alla posizione numero centocinquantadue. Un metro e novantatré centimetri d'altezza, colpi di rimbalzo esplosivi, servizio bomba e testa apparentemente sulle spalle. I fans lo amano perché ha sorrisi e tempo per tutti; gli osservatori lo pressano perché deve fare in fretta ad entrare nel salotto buono. Io mi limito a pensare che, se il gomito destro che lo sta facendo dannare lo lascerà vivere in pace, alla fine dell'anno lo ritroveremo nei primi ottanta. 

martedì 22 aprile 2014

Stanislas e altre storie monegasche.


Il Country Club, leggendaria sede ospitante il Monte Carlo Rolex Masters, resta  il circolo più bello del mondo; nella mente, dunque, come ogni anno, resta soprattutto quello. Un circolo che ospita il torneo più affascinante del globo, per la precisione, insieme a quelli che si svolgono sull'estiva erba britannica. E pensare che i soloni ai vertici dell'Association of Tennis Professionals hanno parecchio insistito per abbassarlo di grado, per declassarlo ad umile 500, visti i ridotti margini di crescita, perlopiù addebitabili a questioni logistiche e territoriali, che l'evento monegasco può offrire rispetto ai rampanti parvenu orientali, i quali si son messi in testa di innestare tennis d'elite in quantità sempre maggiore nelle loro terre d'origine. Per fortuna, l'inattesa mobilitazione di molti giocatori, anche di vertice, ha per ora salvato il torneo, ed il Dio Tennis ha ripagato la scelta regalando una settimana ricca di eventi imprevedibili, oltre che di mattane ampiamente pronosticabili.

Ciò che dei primi giorni del Masters rimane appiccicato alla memoria attiene soprattutto ai colpi di testa degli specialisti del settore. Il premio per la miglior interpretazione se lo aggiudica Fabio Fognini, uno che, quando c'è da far strabuzzare gli occhi per questioni che nulla c'entrano con il campo e la racchetta, non sente ragioni: dopo aver servito abbondante antipasto nei primi due turni, dai quali usciva illeso grazie a schizofreniche vittorie ai danni di Joao Sousa e Roberto Bautista-Agut, in quarto turno Fabio sottraeva il primo set a Tsonga e, trovatosi sul tre pari nel secondo, decideva di omaggiare l'ultimo francese sopravvissuto in tabellone di nove games filati, demolendo al contempo di insulti il padre Fulvio, pietrificato in tribuna.  Pur non avvicinabili in quanto a spettacolo offerto, ricorderemo con affetto le bizzarre esibizioni di due consumati maestri d'instabilità come Gael Monfils ed Alex Dolgopolov, suicidatisi in mezzo ad un mare di orrori contro Carreno-Busta e Garcia Lopez. Quest'ultimo ha invece rappresentato quella che con ogni probabilità è stata la miglior sorpresa del torneo: quasi trentun anni, con un best ranking di numero 23 ottenuto nel febbraio di tre anni fa e dotato di un rovescio ad una mano che riconcilia con il tennis, Guillermo da Albacete si è fermato solo ai quarti, non prima di aver sculacciato un Berdych deludentissimo e di aver fatto tremare Novak Djokovic. Un bravo a lui, dunque, ed una nota di demerito per Nole e Rafa Nadal, che credevamo avrebbero dominato, sul rosso europeo, addirittura più di quanto avessero fatto fino ad ora. Djokovic, brutto in faccia già in quarti di finale, si squagliava contro un Federer sempre più in palla, mentre Rafa, il cui spin continua ad essere nudo, privato com'è della proverbiale spinta, e fallosissimo specie con il rovescio lungolinea, perdeva in due di puro ritmo da David Ferrer, che avrà pur quasi finito la benzina, come da egli stesso dichiarato alla stampa, ma che ad anni trentadue, se non riescono a portarlo fuori giri, certe partite le arraffa ancora volentieri.

L'ottimo Ferru cedeva piuttosto nettamente la semifinale all'atleta più dominante della settimana, quello Stan Wawrinka che, dopo aver smaltito durante la primavera americana i bagordi post-australiani, ha ricaricato le pile per la superficie a lui più cara. La finale metteva dunque di fronte i due svizzeri; il maestro e l'allievo; il generale ed il tenente. Stan, come soffrendo lo status di perenne sottoposto, soffriva più la personalità di Federer che il Federer in carne ed ossa, che comunque si muoveva bene dall'altra parte della rete, e gli cedeva il primo set. Nel secondo, Roger pareggiava subito la partenza con break del compatriota, ed i successivi turni di servizio, piuttosto solidi, portavano il match al tie break. Il tredicesimo gioco veniva deciso da un solo minibreak a favore di Wawrinka, che profittava di un rovescio steccato da Federer sul secondo punto, e finiva proprio nelle mani del tennista di Losanna al terzo set point, grazie ad uno smash apparecchiato da una prima ingestibile. A questo punto le energie di Federer andavano piuttosto rapidamente in riserva, mentre Stanislas, che con lo scorrere del match aveva pian piano dimenticato il proprio complesso di inferiorità, faceva valere la nota tenuta sulla lunga distanza, e chiudeva rapidamente set e match con il punteggio di sei giochi a due.

L'abbraccio tra due amici sinceri, alla fine dell'incontro, è stato il suggello di una settimana difficile da replicare nel corso della stagione. Perché a Shangai e a Mason, Ohio, ci saranno pure denari e possibilità di crescita illimitate, ma il fascino della Cote durante la terza settimana di aprile è qualcosa che va oltre ogni possibile obiettivo politico e materiale. L'unico pensiero negativo, essendomi capitato d'essere italiano, lo dedico alla semifinale settembrina di Coppa Davis. Cambieranno molti fattori, presumibilmente, ma Federer e Wawrinka sembrano vivere un'annata promettente, se non addirittura di grazia.

domenica 20 aprile 2014

Il futuro è Donna.


Donna Vekic ha vinto a Kuala Lumpur il primo titolo di una carriera ancora verdissima e dagli orizzonti presumibilmente sconfinati, inaugurando una privata sala dei trofei che promette di diventare molto affollata, se l'ambizione ed il talento lieve della diciassettenne croata d'albione andranno d'amore e d'accordo negli anni a venire. Ha vinto battendo Dominika Cibulkova, neo top ten e neo finalista slam; una delle signore più in forma del circuito, insomma, riuscendo ad avere la meglio al termine di un match dall'andamento un pizzico bizzarro, se mi concedete l'eufemismo. Dominika vinceva un primo set tirato, al dodicesimo gioco, che sembrava la naturale premessa all'ovvio trionfo della giocatrice più forte e più esperta. Niente da fare, perché Donna, dopo esser scappata sul tre a uno nel secondo parziale, veniva rimontata, ma dimostrava nervi d'acciaio nell'accompagnare l'ostica avversaria verso un finale punto a punto, ribaltando infine a proprio favore il risultato del primo set. Il terzo e decisivo parziale ci regalava la conferma, qualora ce ne fosse ulteriore necessità, che Vekic non è una diciassettenne qualsiasi. Il furore giovanile le permetteva di far fruttare al massimo l'entusiasmo per la vittoria del secondo set, ed in poco più di venti minuti eccola pronta a servire per il neonato torneo malese nato sulle ceneri dei diritti sportivi appartenuti al glorioso appuntamento palermitano. Donna si issava sul cinque due, quaranta a quindici, trovandosi a poter gestire due palle per il match, ma qui la sensazionale maturità della tennista nativa di Osijek doveva fare i conti con un normalissimo tremolio del braccio destro, che la obbligava a cedere il servizio e a tenere in partita "cipollotta". La delusione per non aver sfruttato la ghiotta occasione faceva il resto, e la famelica slovacca si avventava su quella che sembrava diventata una tenera preda, vincendo quattro games filati e costringendo Vekic a servire per salvare il sogno. Ma proprio quando tutti gli indicatori portavano a credere che i games di fila sarebbero stati cinque e che ad alzare il trofeo sarebbe stata Dominika, arrivava l'incredibile reazione della croata, che teneva il turno di battuta garantendosi un tiebreak poi giocato in mondo sontuoso, e vinto per sette punti a quattro.

Donna comparì come una cometa sul finire dell'estate del duemiladodici, a Tashkent. La vidi, appena sedicenne, travolgere alcune giocatrici prima di cedere la finale ad Irina-Camelia Begu. Tra Keys, Puig, Muguruza, Townsend e Robson, le facce nuove del circuito, insomma, Vekic mi era subito sembrata quella con le migliori prospettive: gran fisico, personalità apparentemente di granito, "punch" ed ottimo servizio. Tra i normali alti e bassi della crescita teenageriale, a Donna era scappata nel frattempo un'altra finale, ceduta a "gambissima" Hantuchova nell'acquitrino di Birmingham, l'anno scorso. In qualche modo Donna oggi si è presa una discreta rivincita sulla Slovacchia, e il glorioso risveglio di domani sarà accompagnato dal best ranking, non lontano dalle prime cinquanta tenniste del mondo. Mi prendo un discreto rischio, lo so, ma ipotizzerei una duratura residenza tra le dieci in tempi che potrebbero non essere necessariamente lunghi.

WTA KUALA LUMPUR (finale)

Donna Vekic b. Dominika Cibulkova  5-7 7-5 7-6 (4)

lunedì 14 aprile 2014

La lunga strada di Camila.

                                           

Non ce l'ha fatta Camila, a trasformare la giornata di ieri nella domenica delle prime volte. Ci è andata vicino, le è mancato solo il colpo di reni, ma la vittoria di Caroline Garcia a Bogotà è rimasta l'unica "prima" del weekend. Magnifico torneo, per la figlia di paròn Sergio, comunque. La splendida Cami ha mostrato per tutta la settimana una continuità tennistica che in pochi le sospettavano, riconducendo il proprio gioco dinamitardo nel recinto di una logica ragionata, se non ancora completamente razionale, evitando di spingere sempre il proprio potentissimo cannone a più non posso. Battendo avversarie non di primissima fascia, magari, se si eccettuano una Vinci comunque in crisi piuttosto nera e una Suarez Navarro che certo non riponeva nel velocissimo play-it di Katowice le proprie migliori speranze di successo, ma va considerato che le partite, Giorgi, spesso le perde a prescindere da chi trova dall'altra parte del net. Del resto, se batti Sharapova in Australia e, meno di due mesi dopo, perdi dalla Diyas al primo turno delle qualificazioni di Miami, la tesi non può essere del tutto errata.

Più che una questione di testa, che Camila sembra per la verità avere piuttosto solida, l'ostacolo che finora ha impedito all'argentina di Macerata di ottenere i risultati che, con quel tennis, tutti si attendono da lei, sembra attenere ad una questione di scelte. Scelte che in carriera, finora, erano cadute sempre sulla ricerca del vincente ad ogni costo, del rischio massimo, del colpo di mortaio più devastante, anche quando non era necessario. Con Camila è tutto bianco o tutto nero come in Uomini e No; alcune sfumature di grigio si sono iniziate ad intravedere in Polonia. Un luogo quasi magico, Katowice, per la tennista azzurra, che proprio nel capoluogo dell'Alta Slesia conquistò il primo titolo Itf della carriera. Ieri stava per arrivare anche il primo alloro nel tour maggiore, al termine di uno psicodramma clamoroso, ma le è mancato un punto.

Fu drammatico in Australia, a gennaio, ed è stato drammatico ieri. Se la vicenda si arricchirà di nuovi episodi futuri, Giorgi - Cornet potrebbe presto diventare un classico del lirismo tennistico. Camila perdeva in volata un primo set giocato con senno e poca paura di sbagliare, contro un'avversaria che, ricordiamolo, lo scorso ventidue febbraio eliminava Serena Williams in semifinale a Dubai, dunque maggiormente pronta a certi picchi di tensione. A questo punto la sconfitta, da possibile, diventava molto probabile, ma nessuno si aspettava che si sarebbe realizzata in quel modo. Nel secondo, la Giorgi andava sotto di due break, salvo poi vincere incredibilmente il set per sette giochi a cinque, infiggendo vincenti a ripetizione nel vuoto mentale in cui, giallognola in volto, era incappata una sconvolta Cornet. Un set per parte, dunque, e giunti all'ultimo chilometro il Dio del tennis decideva che il parziale più importante del torneo non poteva essere banale. L'abbrivio preso dalla Cornet era l'inquietante copia-carbone dell'inizio del set precedente, ed in dieci minuti la tennista nizzarda si trovava di nuovo sul tre a zero, di nuovo con due break di vantaggio. A Camila, eroica, riusciva una nuova spaventosa rimonta, fino al punto in cui, nel decimo gioco, sul cinque a quattro per la marchigiana, Alizé le serviva la palla del match. Ma la favola rivelava un finale amaro, e la risposta di rovescio rimaneva impigliata nelle rete insieme ai suoi sogni di gloria. Nel gioco successivo, infatti, Giorgi denunciava tutti i limiti nell'approccio alla rete divorando una comoda volèe, cedendo il servizio e subito dopo il match alla francese, che poteva così esagerare nelle esultanze arrivando addirittura a comunicare telefonicamente la propria gioia, impolitesse oblige, ad anonimo interlocutore poco prima della premiazione.

Faceva tenerezza, Camila, durante il protocollo di fine torneo. Delusa, imbarazzata, quasi spaventata; si vedeva, che il turbine di emozioni l'aveva scossa profondamente. Facile, forse troppo, dirle che in fondo questa sconfitta può rappresentare il punto di svolta della sua carriera. Speriamo, se non altro, che si possa parlare di strada giusta, e che l'avventura di Katowice non sia stata solo il frutto di una settimana di luna buona. Camila, con quel tennis, deve essere protagonista per davvero.


WTA KATOWICE (finale):

Alizé Cornet b. Camila Giorgi 7-6 (3) 5-7 7-5

giovedì 10 aprile 2014

Aria di primavera, boccate d'aria fresca.

                         

Due personaggi, in un giovedì di una settimana popolata da tornei minori, inaspettatamente illuminano il mio pomeriggio.

A Katowice, unico torneo polacco del circuito maggiore, Francesca Schiavone gioca un set e mezzo allapari con Agnieszka Radwanska. Alla pari nel punteggio, certo, e cosa più importante, nel gioco. Per mezz'ora buona, ho rivisto la Francesca di tre anni fa: varia, determinata, incapace di provare timore reverenziale nei confronti di chicchessia. Il rovescio lungolinea a una mano, colpo ampiamente estinto nel circuito in gonnella, oggi predicava e decideva come ai tempi belli, e il serve and volley, specie nella variante smorzata, praticato da sparute minoranze nel tour, lucidava gli occhi di gioia e malinconia. Agnieszka, costretta per qualche minuto a specchiarsi, mi si conceda l'eresia, nella sua stessa varietà, una varietà che in un mondo di colpitrici seriali inevitabilmente la stupiva, rimaneva in attesa che l'ispirazione terminasse. E, in effetti, seppur Francesca abbia continuato a mostrare lampi di stile e di una convinzione che fa sperare per il futuro, dal quattro a due in favore dell'italiana emergeva la maggior tenuta a certi ritmi della polacca, che infilava quattro giochi consecutivi prodromici al 6-4 6-3 che determinava la qualificazione di Aga ai quarti del torneo di casa. Non poteva esserci sconfitta migliore, per la campionessa del Roland Garros 2010: si palesi in questo momento chi pensava che a Francesca non frullassero in testa pensieri di ritiro, visti i drammatici, sportivamente parlando, risultati degli ultimi due anni. Se gioca come oggi, il programma può essere ambizioso ancora per un periodo mediamente lungo, ne sono convinto.

La seconda boccata d'aria fresca arriva da Casablanca, dove da lunedì si sta disputando l'unico torneo rimasto nel continente africano da quando Johannesburg ha ceduto sotto le picconate della crisi economica. Benoit Paire, istrionico artista avignonese, fuori competizione dall'Australian Open a causa di un fastidioso problema al tendine rotuleo, ha portato a casa il suo incontro di secondo turno contro il maratoneta Albert Montanes, rimanendo in gara come maggiore testa di serie, vista l'inopinata eliminazione patita ieri da Kevin Anderson, qui finalista lo scorso anno, per mano di Victor Hanescu. Una vittoria maturata in tre set che non rappresenterebbe nulla di eccezionale, se non si trattasse di Paire. Vinto il primo set e avanti di un braek nel secondo, nel decimo gioco andava in scena il pirotecnico spettacolo tipico delle partite in cui è coinvolto il francese, che apparecchiava lo show inserendo tutti gli ingredienti della sua personalissima extravaganza: cedeva il servizio a zero, andava sotto sei a cinque, sbagliava uno smash da manicomio, perdeva il parziale e frantumava la racchetta. Il tutto in cinque minuti-cinque. Una meraviglia. Quando tutti gli allibratori si affrettavano ad abbassare la quota di Montanes, convinti, come dar loro torto, che Benoit avrebbe perso il decisivo set a zero in quindici minuti e comunque non prima di aver disintegrato altri due attrezzi del mestiere, il francese si rimetteva in sesto e chiudeva con un sei a quattro bugiardo, perché il margine sarebbe potuto essere ancora maggiore, evidenziando tutta la propria superiorità. Una superiorità figlia di un talento bizzarro, e questo si sapeva, che Paire sta però portando agli estremi. Oggi, soprattutto nel terzo set, circa la metà dei vincenti sono arrivati grazie a serve and volley pazzeschi oppure a seguito di smorzate dal coefficiente di difficoltà altissimo. I colpi con cui qualsiasi tennista raccoglie facili quindici, Paire li converte in impensabili errori gratuiti. E meno male che, alla fine della scorsa stagione, aveva promesso che si sarebbe dato una calmata. Non farlo, Benoit, che di irreprensibili soldatini è già piena l'aria.

lunedì 7 aprile 2014

Estasi Fognini: è semifinale.


Fogna, il ragazzo in cui da sempre, coinquilini ostili, abitano il talento puro e la bizza selvaggia. The real wild child, parafrasando Iggy Pop, ha trovato il modo di mettere d'accordo i due litiganti aspetti del suo spigolosissimo carattere. Non sappiamo per quanto, e pur sperando con ogni forza che la composizione delle controversie congenite di Fabio sia definitiva, non scommetterei un marengo sulla trasformazione del bad boy di Arma di Taggia nel proverbiale ragazzo d'oro. Ma è bene così, che la natura segua il proprio corso. E forse basta anche così, perché l'impresa di ieri, alla Mergellina, è una di quelle che rimarranno impresse a fuoco nella storia dello sport di casa nostra, piaccia o non piaccia. Fabio Fognini, neo numero tredici delle classifiche mondiali, rappresenta l'italianità come pochi altri sportivi al mondo; a livello fisionomico, certo, ma soprattutto per quella perversa ed autolesionistica tendenza dell'uomo italico, ed in particolare dell'atleta azzurro, a restare inerme a fronte degli schiaffi avversi, a farsi schiacciare contro il muro, salvo reagire da campione quando la situazione pare ormai compromessa, aggiungendo alle varie imprese sportive e non, oltre ad un certo qual surplus di drammaticità, un dispendio fisico e nervoso tanto micidiale quanto indispensabile nel creare un supremo contatto empatico tra atleta in campo e spettatore tremante in tribuna o sul divano. Fabio è questo ed altro. E' talento con tasso di purezza cristallino, fisicamente strepitoso, copre il campo come pochi e sulla terra battuta, se sta bene, se la testa non inizia a vagolare, se l'avversario smette di essere quello dall'altra parte della rete, prendendo di volta in volta le sembianze dell'arbitro, dei santi, del net, del raccattapalle, del pubblico, ecco, se la mente rimane lì, Fabio sul rosso parte battuto solo contro Nadal e Djokovic, e magari nemmeno sempre. 

Ieri la luna esibiva il proprio aspetto buono e non era scontato, sebbene il Fognini degli ultimi tempi migri sempre meno volentieri sul lato scuro concettualizzato dai Floyd. E dopo i primi due giorni del tie, la nazionale italiana non aveva l'acqua alla gola, di più: il mare sapido del meraviglioso golfo napoletano stava per entrare nel naso ed invadere le vie respiratorie di una spedizione ad un passo dal baratro, soprattutto dopo una sconfitta nel doppio che, dati per molto probabili i due punti in singolare che il campione olimpico Murray avrebbe quasi certamente consegnato alla selezione britannica, assomigliava moltissimo ad un punto di non ritorno. Prima ancora, un Fognini acciaccato alla zona costale sinistra, e di conseguenza in grave difficoltà nel movimento in torsione dal lato del rovescio, aveva portato il primo punto all'Italia vincendo in quattro, faticando per la verità un pò più di quanto aveva sperato, approfittando dell'enorme superiorità  nei confronti di James Ward, il lungagnone scelto da Leon Smith come secondo singolarista a discapito del ribelle Evans perché più affidabile, ma l'affidabilità del londinese non poteva produrre più di un set contro un numero uno azzurro pur a metà servizio. Nel secondo match, spezzato in due giorni a causa dell'oscurità in cui era piombata una programmazione in enorme ritardo per gli acquazzoni abbattutisi su Napoli durante la mattinata di venerdì, Andreas Seppi metteva in difficoltà Andy Murray fino all'ora di cena, sprecando anche quattro set point nel decimo gioco del secondo, ma non riusciva a ripetersi a colazione, finendo per perdere in tre piuttosto nettamente. Il doppio era l'ago della bilancia, dunque, o almeno così tutti pensavano, ma Bolelli-Fognini, la nostra coppia con potenzialità da Masters, perché questa è la voce che da un pò circola nell'ambiente, iniziava il vitale incontro con due set di ritardo, regalando un'ora e mezza ad Andy ed al suo scudiero Fleming, uno che, soprattutto se teleguidato da un campione, sa come ci si comporta sotto rete. La coppia emiliano-ligure abbozzava una reazione di nervi, vinceva il terzo ed inopinatamente si trovava, mezz'ora più tardi, a servire per portare la  partita al quinto, ma, esaurita di schianto la benzina, Simone e Fabio perdevano il servizio sul più bello, e alzavano bandiera bianca cinque minuti dopo, lasciando la Gran Bretagna in vantaggio per due a uno.

"Come finirà Murray - Fognini? Le scommesse sono aperte, ma siamo indecisi se scommettere sul tre a zero o sul tre a uno. Sai, l'italiano gioca in casa e un set potrebbe vincerlo". Questo il ragionamento dei media britannici, ieri mattina, prima dello scontro tra i due numeri uno. E invece. Fabio scendeva assonnato, del resto non gli piace giocare al mattino, si sa, e andava sotto tre a uno. L'inizio della fine? No, solo la fine, però quella di Murray. Sempre più incredulo, con la faccia sempre più stravolta, con i "fuck" pronunciati sempre più frequentemente ma in modo sempre meno convinto, il bi-campione slam franava sotto i colpi di un Fognini mai visto, che dominava lo spauracchio di Glasgow senza concedergli la minima occasione per rientrare, fino a portarsi la mano all'orecchio per sentire il boato di Napoli dopo il punto della partita. Il pronostico era a questo punto ribaltato, e toccava a Seppi portare l'Italia in semifinale. Gli veniva solo richiesto, in realtà, di trovare il modo di non farsi divorare dalla tensione per la paura di rovinare tutto contro un avversario nettamente inferiore ma senza nulla da perdere, con il rischio di trasformare un'impresa storica in uno psicodramma collettivo. Il buon Andreas dava così fondo alle proprie riserve di sangue freddo, bastandogli in tal modo rimanere concentrato e solido per aver ragione di un dimesso Ward, che sin dall'espressione del viso al momento di entrare in campo dimostrava di crederci persino meno dei suoi sfiduciatissimi connazionali assiepati sulle tribune.

E' semifinale, dunque, sedici anni dopo il trionfo di Milwaukee, premessa a quella finale al Forum contro la Svezia che ricordo come uno dei momenti più drammatici della mia vita di appassionato di sport. Stavolta, ad attenderci nei loro appartamenti, troveremo Federer e Wawrinka. Allo stato attuale, entrambi sono tra i primi quattro giocatori del mondo, e guidano la nazionale che vanta il maggior numero di possibilità di alzare l'insalatiera. Ci accoglieranno su una superficie velocissima, il che non è necessariamente una buona notizia, e partiranno con tutti i favori del pronostico. Ma le semifinali si giocano tra cinque mesi, di mezzo ci sono tre slam e tante cose possono cambiare. Se in meglio o in peggio lo scopriremo, ma portando a settembre le facce spiritate di questo storico weekend partenopeo, nessuna possibilità ci è preclusa.

COPPA DAVIS - WORLD GROUP - QUARTI DI FINALE:

ITALIA b. GRAN BRETAGNA 3-2

Fognini (Ita) b. Ward (Gbr) 6-4 2-6 6-4 6-1
Murray (Gbr) b. Seppi (Ita) 6-4 7-5 6-3

Fleming/Murray (Gbr) b. Bolelli/Fognini (Ita) 6-3 6-2 3-6 7-5

Fognini (Ita) b. Murray 6-3 6-3 6-4
Seppi (Ita) b. Ward (Gbr) 6-4 6-3 6-4

mercoledì 2 aprile 2014

I due colori di Serena.


Stavo rileggendo qualche dato relativo al duemilatredici di Serena Williams. E' la sedicesima volta che lo faccio, nell'ultimo mese s'intende, ed ogni volta rimango allibito di fronte a ciò che leggo. Settantotto vittorie e quattro sconfitte complessive in singolare, per una percentualina del 95% di partite portate a casa; oltre dodici milioni di dollari in montepremi; undici titoli in tredici finali. Ma il dato più clamoroso è insito nell'avvenuta mutazione in terraiola di Serenona, le cui fortune non venivano, fino a qualche mese fa, necessariamente associate all'argilla. Ma l'amore è capace di trasformazioni potenti ed inaspettate, e Muratoglu è riuscito nel miracolo, facendo da regista ad una paurosa striscia di ventotto vittorie e nessuna sconfitta on clay, con conseguenti cinque titoli: Family Circle Cup, Madrid , Foro Italico, Roland Garros - alzi la mano chi, due anni fa, avrebbe scommesso sul bis a Parigi - e Swedish Collectors a Bastad. Ed è vero, persino ovvio, che le stagioni eccezionali sono tali proprio per il loro carattere di singolarità, ma di certo ho subito un discreto shock stamane, quando, davanti al solito caffè apparecchiato sulla tovaglietta plastificata di Pet Sounds, ho appreso della bocciatura subìta dalla più giovane delle Williams sulla costa della Carolina meridionale, proprio laddove lo scorso anno ebbe inizio la sua straordinaria epopea sulla terra battuta. E dire che al Family Circle Serena è affezionata, tanto da averci vinto tre volte. Sarà perché il torneo è l'ultimo nel calendario "maggiore" a disputarsi sull'ormai altrimenti estinta terra verde; sarà perché la competizione si disputa in uno tra gli stati a più alta concentrazione afroamericana, cosa che le conferisce enormi motivazioni extra. Fatto sta che nel deep south Serena ci è sempre andata volentieri, facendo spesso benino. Ma ieri è successo quello che è successo, ed è bastata Jana Cepelova, discreta ribattitrice slovacca che ricordavo giusto per aver fatto sudare, la scorsa estate, le proverbiali sette camicie a Roberta Vinci in quel di Church Road, per estrometterla al secondo turno. Era infortunata? A fronte dell'imponderabile, l'appiglio alla precarie condizioni fisiche è sempre vincente. Ma in conferenza stampa Serena è stata al solito signorile, riconoscendo i meriti dell'avversaria e limitandosi a dire che la giornata di ieri non era la sua giornata. Staremo a vedere, tanto l'attesa sarà piuttosto breve, se il semaforo rosso patito sul verde di Charleston si trasformerà in semaforo verde sul classico rosso europeo. Oppure se, invece, il duemilatredici rosso di Serena rimarrà un incredibile e meraviglioso unicum, e per rivederla al top dovremo aspettare il verde più noto: quello di Wimbledon.

Family Circle Cup, Charleston (secondo turno):

Jana Cepelova b. Serena Williams  6-4 6-4